Dimenticate i collegamenti odierni, figuratevi a piedi o a dorso d’asino, vi allontanate dalle trazzere e seguite qualche impervio sentiero sui pendii della Valle del fiume Agrò, fino a giungere al convento Basiliano dei Santi Pietro e Paolo.
E di colpo dimenticate ogni fatica, “qui tutto è grazia e bellezza, calma e voluttà” (grazie Charles), ma di lusso c’è poco, se non l’architettura raffinatissima dello stesso. Avevo già fatto visita a questa chiesa sbalorditiva, per un documentario filmato poi mai pubblicato.
C’è sempre un perchè e, tornato sul posto, ho capito grazie alla squisita accoglienza dell’architetto Daniele Tèfa. Trascurando le sue attività, egli si è messo a disposizione come spesso i Siciliani sono soliti fare con un visitatore. Ho così potuto apprezzare la struttura dei Santi Pietro e Paolo come già la prima volta, ma grazie al Tefà, prendendo ora alcuni appunti riguardanti il suo lavoro di recupero del monumento per conto della Sovrintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali.
In particolare, si è trattato di dare sollievo alla navata Sud, la quale copertura ricoperta da calcinacci, nella pura tradizione Sicula, stava cedendo. Daniele mi ha fatto vedere alcuni appunti di lavoro tra i quali un’ interessante analisi del fabbricato dal punto di vista degli scambi termici, nonchè dei materiali adoperati, tra i quali tanta pietra lavica dal vicino Etna.
Manca, per la totale messa in sicurezza della chiesa, un intervento sul tetto della navata Nord, ma non ci sono crediti. Cosi il lavoro di restauro conservativo già operato si trova vanificato poiché non debitamente completato.
Ho l’impressione che spesso in Sicilia, mentre si hanno le competenze, i Know-how, il gusto e la voglia di fare, si è costretti a mettere dei cerotti su delle ferite sanguinanti.
A cosa serve? Non dovrebbe un piano di recupero consegnare ai posteri un edificio interamente salvato? O dobbiamo correre sempre il rischio che -come di recente a Monreale- un intervento di restauro porti ad un cedimento strutturale in meno di 20 anni?
Speriamo che professionisti come Daniele Tefà, possano trovare in futuro la possibilità di un’espressione meno approssimativa, loro che da volontari dedicano poi parte della loro energia alla promozione dei siti che hanno contribuito a salvare e che meglio di loro nessun conosce.
Dimenticate i collegamenti odierni, figuratevi a piedi o a dorso d’asino, vi allontanate dalle trazzere e seguite qualche impervio sentiero sui pendii della Valle del fiume Agrò, fino a giungere al convento Basiliano dei Santi Pietro e Paolo.
E di colpo dimenticate ogni fatica, “qui tutto è grazia e bellezza, calma e voluttà” (grazie Charles), ma di lusso c’è poco, se non l’architettura raffinatissima dello stesso. Avevo già fatto visita a questa chiesa sbalorditiva, per un documentario filmato poi mai pubblicato.
C’è sempre un perchè e, tornato sul posto, ho capito grazie alla squisita accoglienza dell’architetto Daniele Tèfa. Trascurando le sue attività, egli si è messo a disposizione come spesso i Siciliani sono soliti fare con un visitatore. Ho così potuto apprezzare la struttura dei Santi Pietro e Paolo come già la prima volta, ma grazie al Tefà, prendendo ora alcuni appunti riguardanti il suo lavoro di recupero del monumento per conto della Sovrintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali.
In particolare, si è trattato di dare sollievo alla navata Sud, la quale copertura ricoperta da calcinacci, nella pura tradizione Sicula, stava cedendo. Daniele mi ha fatto vedere alcuni appunti di lavoro tra i quali un’ interessante analisi del fabbricato dal punto di vista degli scambi termici, nonchè dei materiali adoperati, tra i quali tanta pietra lavica dal vicino Etna.
Manca, per la totale messa in sicurezza della chiesa, un intervento sul tetto della navata Nord, ma non ci sono crediti. Cosi il lavoro di restauro conservativo già operato si trova vanificato poiché non debitamente completato.
Ho l’impressione che spesso in Sicilia, mentre si hanno le competenze, i Know-how, il gusto e la voglia di fare, si è costretti a mettere dei cerotti su delle ferite sanguinanti.
A cosa serve? Non dovrebbe un piano di recupero consegnare ai posteri un edificio interamente salvato? O dobbiamo correre sempre il rischio che -come di recente a Monreale- un intervento di restauro porti ad un cedimento strutturale in meno di 20 anni?
Speriamo che professionisti come Daniele Tefà, possano trovare in futuro la possibilità di un’espressione meno approssimativa, loro che da volontari dedicano poi parte della loro energia alla promozione dei siti che hanno contribuito a salvare e che meglio di loro nessun conosce.
Dimenticate i collegamenti odierni, figuratevi a piedi o a dorso d’asino, vi allontanate dalle trazzere e seguite qualche impervio sentiero sui pendii della Valle del fiume Agrò, fino a giungere al convento Basiliano.
E di colpo dimenticate ogni fatica, “qui tutto è grazia e bellezza, calma e voluttà” (grazie Charles), ma di lusso c’è poco, se non l’architettura raffinatissima dello stesso. Avevo già fatto visita a questa chiesa sbalorditiva, per un documentario filmato poi mai pubblicato.
C’è sempre un perchè e, tornato sul posto, ho capito grazie alla squisita accoglienza dell’architetto Daniele Tèfa. Trascurando le sue attività, egli si è messo a disposizione come spesso i Siciliani sono soliti fare con un visitatore. Ho così potuto apprezzare la struttura come già la prima volta, ma grazie al Tefà, prendendo ora alcuni appunti riguardanti il suo lavoro di recupero del monumento per conto della Sovrintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali.
In particolare, si è trattato di dare sollievo alla navata Sud, la quale copertura ricoperta da calcinacci, nella pura tradizione Sicula, stava cedendo. Daniele mi ha fatto vedere alcuni appunti di lavoro tra i quali un’ interessante analisi del fabbricato dal punto di vista degli scambi termici, nonchè dei materiali adoperati, tra i quali tanta pietra lavica dal vicino Etna.
Manca, per la totale messa in sicurezza della chiesa, un intervento sul tetto della navata Nord, ma non ci sono crediti. Cosi il lavoro di restauro conservativo già operato si trova vanificato poiché non debitamente completato.
Ho l’impressione che spesso in Sicilia, mentre si hanno le competenze, i Know-how, il gusto e la voglia di fare, si è costretti a mettere dei cerotti su delle ferite sanguinanti.
A cosa serve? Non dovrebbe un piano di recupero consegnare ai posteri un edificio interamente salvato? O dobbiamo correre sempre il rischio che -come di recente a Monreale- un intervento di restauro porti ad un cedimento strutturale in meno di 20 anni?
Speriamo che professionisti come Daniele Tefà, possano trovare in futuro la possibilità di un’espressione meno approssimativa, loro che da volontari dedicano poi parte della loro energia alla promozione dei siti che hanno contribuito a salvare e che meglio di loro nessun conosce.
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